Quarantasette
La voce di Mia
La vettura avanzava tra le buche sull’asfalto, sussultando e rullando come una nave nel mare in tempesta.
Sapevo già molto di quelli che ormai consideravo i miei soliti compagni di viaggio. Potevo ricordare a memoria i loro volti, il modo di vestire e persino l’odore: era la vita sempre uguale a se stessa della grande città che ci rendeva così monotoni, fin troppo ripetitivi negli orari e nei gesti.
Il nostro ritrovo era l’autobus numero quarantasette, quasi una seconda casa, un trenino da luna park dove ogni mattina potevo continuare a sonnecchiare, riprendendo qualche sogno rimasto interrotto e impigliato fra le lenzuola o perdermi nella lontananza dei pensieri di quel limbo lungo e ovattato attraverso cui la coscienza transita dalla notte al giorno.
La memoria è un luogo strano e pieno di fascino. A volte sovvengono, chiarissimi, dettagli all’apparenza insignificanti, minuscoli appigli che serbano la combinazione esatta per aprire in un istante qualche porticina segreta e lasciarci entrare a passi silenziosi nelle soffitte dei ricordi.
Di quel giorno so che avevo in testa un cappello di lana, che il cappello era a righe bianche e nere e che lo sopportavo appena. Che sotto la lana i capelli si stavano increspando e non vedevo l’ora che finisse l’inverno. Lo avevo indossato controvoglia, per tentare di scacciare un’aria più fredda del solito, che mi aveva sibilato nelle orecchie per
una buona mezz’ora, mentre aspettavo di veder comparire il bus in lontananza.
Stavo seduta in fondo e disegnavo col dito sul finestrino, dissolvendo il vapore in gocce. Ripensavo a un libro sul significato delle fiabe che stavo leggendo in quei giorni,
quando fui distratta da una voce diversa e inaspettata.
– Hey, nevica!
Nella mia città non nevicava quasi mai, eppure guardando attraverso i segni che avevo tracciato sul vetro vidi l’aria densa di fiocchi, poi accanto a me quel sorriso contagioso.
Per un istante gli posai uno scorcio di pensiero addosso, poi mi resi conto che parlava a me. Allora mi tirai subito su, cercando di stabilire un minimo di reazione il
più possibile gentile.
– È vero, che strano! – gli dissi.
– Mai visto neve da quando soy qui. Fa freddo oggi.
Mi aveva colto di sorpresa e parlava come se ci conoscessimo da sempre, con una spontaneità invitante.
– Ciao, io sono Mia.
Quel modo di presentarmi era l’eco degli slogan nei cortei della mia infanzia, dove andavo a cavalluccio di mamma o di papà, senza sapere dov’ero.
Mi guardò perplesso.
In un lampo pensai che quella frase non poteva rievocargli nulla, chissà se a quei tempi era già nato e comunque probabilmente non era qui. Forse l’aveva fraintesa.
– Mia è un nome! – gli spiegai, spogliandomi del cappello.
– Ah, non sapevo! – sorrise – io Victor.
Un altro sussulto improvviso e la signora che gli stava accanto perse l’equilibrio, strattonandolo per non cadere. Lo zainetto blu gli scivolò dalla spalla finendo sulle mie
ginocchia, più pesante di quanto immaginassi. Scusandosi con un gesto della mano, mentre la signora borbottava imbarazzata, capivo che Victor aveva qualche difficoltà a esprimersi.
Guardai di nuovo fuori. La nevicata era sempre più fitta, la gente per strada era euforica. Uno spettacolo decisamente inusuale a quell’ora di mattina, quando di solito tutti correvano nervosi per le loro faccende.
Mi accorsi che Victor guardava nella stessa direzione, girandosi ogni tanto verso di me. Forse non ero stata molto socievole con lui.
– Da dove vieni? – chiesi, dopo quel silenzio che avrebbe potuto essere un punto e basta. Come avevo immaginato, non aspettava altro. Sorrise.
– Soy di Ecuador.
– Ecuador! E da quanto tempo sei qui in Italia?
– Tre anni. Tanto tempo!
– Davvero.
Sarebbe stato bello partire all’improvviso per l’altro capo del mondo e stare via tre anni, pensai.
– Ti manca la tua terra?
– Sì – abbassò lo sguardo da un lato, spegnendo appena quel sorriso fresco e infantile – non sono ancora tornato.
– Non sei mai tornato a casa? – quasi non ci credevo.
– Non posso, per avere il permesso di soggiorno. Forse adesso vado, il prossimo mese. Dopo tre anni che ho dovuto aspettare.
Sottolineava quel “tre anni” come se fosse un suo pensiero costante.
– E qui cosa fai?
– Pulizie in ufficio la mattina, il pomeriggio lavoro in un supermarket. Non ho mai il tempo per divertirmi! – lo disse ridendo, con un tono che traducevo per ingenuo, ma che forse nascondeva molto altro.
– E non esci mai?
– La domenica sì, con mia sorella e i suoi amici. Lei è venuta prima di me. E tu ora vai al lavoro? – mi riportò in un attimo alla realtà, con un brivido che non era per il freddo.
– Già. Non mi va, si vede? – sorrise, forse capiva che cercavo un alleato per scacciare la noia.
– Ah, sì sì, meglio stare a dormire! Ora io vado a casa a dormire un poco, poi al lavoro nel supermarket. Tu cosa fai?
– Lavoro in una libreria. Una specie di supermarket, dove si vendono i libri – ironizzai, e lui sembrò non capire. O forse ero io a non rendermi conto di quanto fosse distante la mia realtà dalla sua – insomma, un grande negozio di libri.
– Bello, e lavori le otto ore?
– Sì, ma faccio dei turni, a volte cambio orario – tra i fiocchi di neve vidi l’entrata del parco – Oh, devo scendere alla prossima fermata, scusami!
Mi resi conto, mentre lo dicevo, che un po’ mi dispiaceva salutarlo così. Mi sembrava di aver ritrovato un vecchio amico. Ancora non sapevo quasi nulla di lui, ma il fatto che venisse da un paese così lontano mi incuriosiva molto.
– Va bene. Piacere – mi tendeva la mano – allora... ci vediamo.
– Certo – gli risposi tentennando, ma come a voler dire “sicuro”, e ci scambiammo una stretta di mano che era come una promessa.
Si aprirono le porte del bus e scesi giù con la netta impressione di non aver fatto quel che dovevo fare. Les mots dans l’escalier, le parole non dette che ti vengono in mente quando ormai sei già sulle scale, mi erano sfuggite lasciandomi una vaga malinconia. Rimasi con uno strano senso di insoddisfazione. Però in fondo avevo anche fiducia che nel piccolo mondo della routine quotidiana lo avrei incontrato di nuovo.
Non sbagliavo. Da quel giorno ci incontrammo quasi sempre, con casuale fatalità.
Era divertente vederlo spuntare dal lato opposto dell’autobus, che mi cercava con lo sguardo facendosi strada fra i nostri compagni di viaggio assonnati.
A volte, in quelle mattine in cui avevo solo voglia di isolarmi con la musica ficcata nelle orecchie, fingevo di ignorare la sua presenza, di non vederlo nella confusione, per poi salutarlo solo al momento di scendere. E tutte le volte un po’ me ne pentivo, perché sapevo che mi avrebbe fatto cambiare verso alla giornata.
Un sole, il mio “fratellino dell’Ecuador”, come lo avevo rinominato senza dirglielo.
Victor aveva ventitré anni, parecchi meno di me, e mi raccontava di una vita, la sua, così distante dalla mia che mi pareva di vederla scorrere davanti agli occhi come in un film. Era cresciuto in una fattoria, una famiglia contadina con otto tra fratelli e sorelle. Immaginavo i campi coltivati che mi descriveva, le distese ampie con i tori al pascolo.
Mi raccontò che aveva paura dei tori, lui. Che se fosse riuscito a tornare dalla sua famiglia per un po’ mi avrebbe portato le foto di quei luoghi.
Mi divertiva parlare con lui, in un misto di italiano e spagnolo che a volte diventava un tentativo di scambiarci delle lezioni estemporanee di lingua.
– Sai che vuol dire amarillo?
– Aspetta, forse lo so. È un colore... rosso?
– Brava, ma non è rosso, è giallo! Rosso es rojo.
– Ma allora il vino tinto?
– Vino tinto è il vino rojo.
Ci fu un momento di silenzio. Volevamo entrambi concludere un ragionamento troppo sottile, e ci ritrovammo inceppati sulle barriere linguistiche. Pensai che fosse gentile da parte mia rompere lo stallo.
– Ok, però ho quasi indovinato. Sai che l’estate prossima vorrei andare in vacanza in Spagna? Dai, insegnami qualche altra parola.
Si divertiva molto a fare questo gioco.
– Camarones.
– Questa è difficile. Non lo so, dimmelo – e a quel punto si rendeva conto di trovarsi lui in difficoltà.
– Sono piccoli... si mangia fritti o con zuppa.
– Ma cos’è, una verdura?
– Oh no, no – cercava le parole per farmi capire – come pesci ma duri. Sono bianchi, un po’ rosa...
- Ah! I gamberi! Gamberetti!
- Sì, forse... – e assumeva un’espressione di impaccio e tenerezza, solo un po’ attutita dall’autoironia che aveva per natura così evidente.
Io e lui eravamo un mondo a parte su quell’autobus, come se nessuno potesse capirci.
Se ero seduta mi veniva del tutto naturale lasciargli poggiare il suo zaimo – così continuava a chiamare lo zainetto blu da cui non si separava mai – accanto a me, o addirittura tenerglielo sulle mie gambe, anche se dovevo quasi convincerlo.
Mi raccontò che aveva deciso di raggiungere la sorella dopo che la sua ragazza l’aveva lasciato all’improvviso. Come se non avesse più senso stare lì, aveva preferito partire per un paese lontanissimo e cominciare una nuova avventura. Mi sembrava una storia incredibile, soprattutto distante dalla mia e da quelle dei miei amici. Sparire a migliaia di chilometri oltreoceano lasciandosi tutto alle spalle, senza una prospettiva, affrontando incognite di ogni tipo, solo perché a vent’anni una storia finisce, mi lasciava stupita.
E ancora di più percepivo la nostra profonda asimmetria quando mi parlava del suo desiderio di avere una famiglia. Quasi si rammaricava di non avere ancora una moglie e dei figli alla sua età, mentre io che avevo quasi dieci anni più di lui non mi ponevo affatto il problema. Avevo la mia comoda esistenza fatta di un lavoro discreto, una casa, Lorenzo che era la mia sicurezza sentimentale, gli amici.
Forse proprio per questa distanza, di Victor mi incuriosiva tutto, era la mia chiave per conoscere un mondo nuovo: il ragazzo con lo zaimo blu, da cui estraeva per me storie di altri tempi, di gente lontana, di paesi sconosciuti, con una generosità che a volte mi imbarazzava.
In fondo cos’ero io per lui? Solo una compagna di viaggio nel traffico di città.
Qualche volta, come svegliandomi all’improvviso, sospettavo che volesse sposare me, che un giorno o l’altro me l’avrebbe chiesto. La sola idea mi dava un profondo senso di disagio, e allora coglievo l’occasione per infilare il più spesso possibile Lorenzo nei nostri discorsi.
Victor mi raccontava di qualche ragazza cui aveva chiesto di uscire, tentativi inconcludenti in cui si era sentito ancora più solo.
Un giorno tirò fuori alcune cassette di musica e me le diede. Era un certo Widinson, un famoso cantante del suo paese. Insistette molto per farmi accettare quel regalo. A me non sembrava giusto e poi quella musica non mi piaceva affatto, la trovavo melensa e noiosa. Avevo anche qualche difficoltà per ascoltarla, volendo: le musicassette ormai non si usavano più. Per lui, invece, rappresentavano un piccolo tesoro, la voce della sua terra.
A volte era davvero difficile capire se sarebbe stato più giusto accettare qualcosa con formale gentilezza o invece declinare, rischiando di non essere capita.
Quel regalo e il mio imbarazzo, l’incapacità di dirgli le mie vere impressioni sulla musica che tanto amava, la sproporzione fra la mia assoluta indifferenza all’idea di tenere le cassette e il valore affettivo profondo che avevano per lui, tutto questo aprì uno spiraglio di nuova luce sull’idea che avevo di me.
Forse non ero poi così genuina e onesta come pensavo. Nemmeno tanto capace di empatizzare, come volevo credere. Probabilmente non ero, in definitiva, la persona serena
che ritenevo di essere.
Avevo compreso però il suo desiderio di risposte, quindi gli preparai un cd con un misto di brani che mi piaceva ascoltare in quel periodo. Un disco leggero leggero.
Lo misi nella borsa con l’intento di darglielo alla prima occasione. Non c’eravamo mai scambiati i numeri di telefono, la nostra amicizia rimaneva sospesa sul filo del caso, o forse del destino.
Lo portai con me per giorni, che divennero settimane. I viaggi in autobus tornarono a essere lunghi e noiosi. Victor sembrava sparito nel nulla. Pensai che non lo avrei più rivisto.